Джорджио Бьянчи о судьбе донецкого балета, снайперах на Майдане и будущем Украины (итальянская версия) - 22.07.2023 Украина.ру
Регистрация пройдена успешно!
Пожалуйста, перейдите по ссылке из письма, отправленного на
Культура обложка
Культура

Джорджио Бьянчи о судьбе донецкого балета, снайперах на Майдане и будущем Украины (итальянская версия)

© из личного архиваДжорджио Бьянчи интервью
Джорджио Бьянчи интервью
Читать в
Giorgio Bianchi a photojournalist, documentary filmmaker and publicist from Italy, has been in Ukraine since 2013 – in Kyiv, in different cities of Donbass, created several works of various genres dedicated to the Ukrainian conflict.
In an interview with Ukraina.ru, he told us about his impressions of the “post-apocalyptic” Debaltseve, communicating with local residents on both sides of the conflict, the dramatic story of a Donetsk ballerina and filming a documentary about the war from two opposing sides.
– Mr. Bianchi, could you tell about some interesting details about making reportages in Ukraine and Donbass? As I know you`ve been there many from the beginning of Maidan in 2013.
– L’aspetto più interessante del lavoro svolto in tutti questi anni in Ucraine e nel Donbass è stata sicuramente la sensazione di aver testimoniato gli eventi forse più significativi dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi. Per me è sempre stato del tutto evidente che con il manifestarsi della crisi in Ucraina, i grandi ingranaggi della Storia si fossero rimessi in moto.
Arrivare nella zona dell’aeroporto di Donesk nel gennaio/febbraio 2015 e poi a Debaltsevo sempre nello stesso periodo, sono esperienze che ti segnano per sempre. Le case abbandonate con i calendari fermi al 2014, i piatti con il cibo congelato ancora sulle tavole, gli armadi pieni di vestiti e le stanze dei bambini con i peluche nei letti e i giocattoli sulle mensole, sono immagini che rimarranno impresse nella mia memoria fino alla fine dei miei giorni. E poi ancora quel silenzio irreale rotto soltanto dal rumore delle lamiere agitate dal vento e dalle raffiche in lontananza, le strade deserte, i branchi di cani randagi che entravano nelle abitazioni attraversando i muri sventrati dai bombardamenti. Sembrava uno scenario post-apocalittico.
Come dimenticare poi quella selva di mani tese, che attendevano la consegna degli aiuti umanitari a Debaltsevo. Dopo aver sperimentato tutta quella sofferenza, quel dolore profondo e quella disperazione, qui nella vita quotidiana mi sembra tutto superfluo, non necessario, caduco.
– What could you say about the story of Maidan in 2013-2014 from now, from the current situation?
– Maidan è stato un colpo di stato da Manuale. Uno scenario del tutto analogo a quello lituano ben descritto da Galina Sapozhnikova nel suo volume “La congiura lituana”.
Le manifestazioni pacifiche promosse principalmente attraverso i social network sono state ben presto infiltrate da gruppi di estremisti, in molti casi di chiara ispirazione neonazista, che hanno iniziato a cercare lo scontro con le forze dell’ordine per provocare azioni di forza che potessero giustificare un innalzamento del livello del conflitto.
La cosa che più mi è rimasta impressa di quei giorni è l’abbigliamento dei manifestanti: la maggior parte di loro indossava elmetto e mimetica militare, aveva protezioni sui gomiti e sulle ginocchia e spesso marciava in formazione, in molti casi esponendo i vessilli di Pravy Sektor o di Svoboda, due gruppi politici ultranazionalisti: avevano ben poco dei pacifici manifestanti che protestavano contro il proprio governo, e davano più l’idea di essere dei gruppi paramilitari in assetto da guerra.
La situazione rimase in una fase di stallo, con scontri continui tra polizia e manifestanti
lungo le strade che conducevano ai palazzi del potere, fino a quel fatidico 20 Febbraio.
L’eco dei colpi delle armi da fuoco era impressionante, capire la loro provenienza impossibile.
Arrivato in prossimità dell’hotel Ucraina trovai riparo dietro un muretto: da quel punto, avevo un’ottima visuale sull’intera scena. Di fronte a me un manifestante armato di carabina si riparava dietro un albero, mentre un altro, giovanissimo, venne a nascondersi proprio accanto a me.
Fu a quel punto che avvenne l’impensabile: da quella posizione iniziammo a sentire distintamente un suono di colpi esplosi che sembravano provenire da sopra le nostre teste, ovvero dalle finestre dell’hotel che in quel momento era il punto di raccolta dei feriti e era occupato interamente dai manifestanti.
E’ mia ferma convinzione che molti dei colpi che hanno abbattuto manifestanti e poliziotti lungo la via, siano stati esplosi dalle medesime armi da fuoco, imbracciate da cecchini appostati all’interno dell’hotel Ucraina.
– Your reportages, photos and documentary are full of alive emotions, scaring images and the feeling of real tragedy. Could you tell me about this process – creative, artwork inside of the military conflict? How are you catching an inspiration there?
– Risponderò a questa domanda, riportando un passaggio tratto dal mio libro “Teatri di guerra contemporanei”:
“Era passato un anno.
Dodici mesi che mancavo dal Donbass.
Avevo contato i giorni e le ore, immerso fino al collo nei lavori commerciali.
Le immagini marcivano invendute dentro il mio hard disk e svanivano dai miei ricordi: le case sfondate dai proiettili con le finestre simili ad orbite vuote; quei fantasmi che vagavano senza meta tra le vie deserte; i volti dei miliziani sfigurati dal terrore durante il bombardamento nel bunker.
Tante volte avevo udito quel rumore al cinema o in televisione ma dal vivo….Un altro effetto, un altro suono.
Perché rischiare ancora ?
Cosa cercare?
Tre viaggi, avevo detto tutto. Che altro fare ?
Di questa guerra ai confini dell’Europa non interessava più niente a nessuno; dopo decine di articoli e centinaia di foto, i più non sapevano ancora dove collocare l’Ucraina sulla mappa, non avevano capito chi fosse contro chi e la parola Donbass, che per me era una delle declinazioni di ciò che si potesse intendere come “casa”, suscitava sguardi vaghi vogliosi di cambiare discorso.
Eppure un pensiero aveva continuato ad assillarmi: il Teatro dell’Opera.
Nonostante le bombe, i blackout, il magazzino distrutto da un colpo di mortaio, le defezioni degli artisti e delle maestranze, ha continuato a funzionare facendo sempre il pieno di spettatori.
Aveva senso arrovellarsi su questo aspetto almeno apparentemente marginale ?
C’era in tutto questo un significato più alto ?
Circa un terzo degli artisti del teatro era fuggita subito dopo lo scoppio del conflitto, inclusi importanti cantanti e quattro direttori d’orchestra.
Perché gli artisti e i lavoratori del teatro, tra inenarrabili difficoltà, hanno messo a rischio la propria vita e la propria carriera per continuare a mettere in scena gli spettacoli ?
E che dire del pubblico ?
Nonostante i combattimenti siano proseguiti senza sosta, i 960 posti a sedere della struttura sono risultati quasi sempre al completo. Anche nei mesi peggiori del conflitto decine di persone hanno attraversato la città buia, spesso senza mezzi, per andare ad occupare la platea e le gallerie.
Per molti di loro quello era un modo per sfuggire ai rumori della guerra, un momento di evasione da una “nuova normalità” che si faceva fatica ad accettare.
Mai come in quel luogo mi è stata evidente la funzione dell’arte quale balsamo dell’anima; non è possibile spiegare diversamente le motivazioni che spingevano quelle persone, giovani, vecchi e perfino bambini, a tenere in vita il "loro" teatro ad ogni costo, quando mancava tutto il resto e dovevano ogni volta rischiare la vita per arrivare fin lì e poi tornare a casa.
Alina è una delle artiste del corpo di ballo che ha scelto di restare.
Ha studiato all'Accademia del teatro fin da piccolissima e per tutto il periodo della guerra ha continuato a ballare, nella convinzione che mantenere in vita gli spettacoli fosse uno dei pochi modi per far sì che gli abitanti della sua città, almeno per un breve istante, non pensassero agli orrori di guerra.
Il ritmo della vita di Alina segue gli orari del teatro: dal martedì al venerdì ha le lezioni di danza e le prove; il sabato e domenica gli spettacoli; il lunedì è l'unico giorno libero che hanno gli artisti e lei solitamente lo utilizza per andare a trovare i nonni materni, ai quali è molto legata, oppure per incontrare le sue colleghe e fare una passeggiata in centro o andare in discoteca.
La storia di Alina è una delle mie preferite sia per l’umanità e la spontaneità emanate dalla protagonista che per l’incredibile contrasto tra il suo ambiente di lavoro e le trincee poco distanti.
Mi è capitato diverse volte di dover passare, nell’arco di poche ore, dall’uno all’altro “teatro di guerra”.
Ebbene ogni volta ho avuto la sensazione di essere stato catapultato in un mondo che fosse l’esatta negazione dell’altro.
Tra gli spettatori e i lavoratori del teatro non vi era la minima traccia della desolazione che si riscontrava negli sguardi di chi viveva nei territori bombardati; allo stesso tempo la serenità accumulata nelle ore trascorse a contatto con gli artisti scemava rapidamente a mano a mano che il paesaggio assumeva le caratteristiche della zona di guerra.
Quando mi ritrovo in pubblico a parlare del mio lavoro, mi sforzo di cercare le parole adeguate per chiarire questo concetto e provare a descrivere il contrasto tra questi due scenari e ogni volta torno a casa con la sensazione di aver fallito per l’ennesima volta.
Sono giunto alla conclusione che anche questa è una di quelle esperienze che si riesce a comprendere appieno solo se la si vive in prima persona.”
Una delle più grandi soddisfazioni della mia carriera professionale è stata quella di vedere la storia di Alina inserita nell'ambito del programma culturale del Forum Economico di San Pietroburgo '23 e esposta nel prestigioso Tovstonogov Bolshoi Drama Theatre.
– How was your cooperation with Ukrainian, Russian, Italian journalists during the conflict? Have you met with the obvious propaganda? Have you met the people who just couldn`t believe you?
– Drante la realizzazione del documentario DIVIDED: What language do you express love in?, selezionato al Triste film festival 2023, ho collaborato con una troupe ucraina guidata da un fotografo americano che lavorava da tempo embedded presso un gruppo di miliziani di Pravyj Sektor.
Il mio compito era la regia sul campo dal lato filo-russo, il compito del fotografo americano era la regia sul campo dal lato filo-ucraino.
Entrambe le troupe avevano piena autonomia decisionale, erano perfettamente indipendenti l’una rispetto all’altra nella scelta delle storie e dei contenuti, l’unico elemento in comune consisteva nell’avere uno stesso direttore della fotografia che avrebbe seguito le rispettive indicazioni dei due registi sul campo.
Ebbene al termine delle riprese, una volta montato il documentario, la troupe ucraina ha preteso prima che il film non uscisse, poi quando ha capito che ciò sarebbe stato impossibile, ha ritirato la firma dal proprio girato. Un comportamento del tutto incomprensibile.
Prima del 24 Febbraio 2022 il mio lavoro era abbastanza conosciuto presso gli addetti ai lavori.
Ha vinto diversi premi internazionali, è stato rappresentato a Perpignan nel 2018 durante la proiezione serale e veniva pubblicato nelle testate mainstream. Venivo spesso invitato nelle scuole e negli atenei per raccontare le mie esperienze e per illustrare il contesto della guerra civile in Ucraina.
Poi all’improvviso, dopo il 24 Febbraio, come per incanto sono diventato un propagandista russo. La mia faccia è stata sbattuta sulla prima pagina del Corriere della Sera, il più importante quotidiano italiano, dove venivo descritto come il “capo” dei filo-putiniani d’Italia. Più esattamente la mia vita professionale era definita una “attività politico-propagandistica filorussa”. Durante un confronto televisivo con la vicedirettrice del Corriere e co-firmataria dell’articolo, Fiorenza Sarzanini mi ha definito uno spargitore di fake-news che alimentano la propaganda del Cremlino. Quando le ho chiesto di portare degli esempi delle mie presunte fake news, mi ha risposto che non era importante che le notizie che davo fossero vere o meno, l’aspetto a suo dire preoccupante era che le mie informazioni venivano riprese da quella che lei definiva essere la macchina della propaganda di Putin.
Assurdo.
– Could tell something about your conversation with local citizens in Kiev, Donets, maybe other regions in Ukraine and Donbass? How do they relate to the communication with European journalist? What did they tell you?
– Ho sempre avuto un ottimo rapporto con le popolazioni del Donbass. Inizialmente erano molto aperte nei confronti dei giornalisti Europei, poi con il tempo hanno iniziato ad essere diffidenti. Ma nel mio caso è stato diverso visto che da quelle parti sono un volto abbastanza noto e sanno che le mie opinioni rispetto alla loro situazione non sono mai mutate nel tempo.
L’aspetto che nel tempo più mi ha colpito di quella gente è che non odiassero gli ucraini, seppure bombardavano le loro case. Il loro odio, se così lo possiamo definire, era piuttosto rivolto ai nazionalisti, che a loro dire tenevano in ostaggio il governo di Kiev.
La maggior parte di loro voleva ritornare all’Ucraina, come era prima del colpo di stato di Maidan.
– Can you image any option of the end of this war? What could it be?
– L’unica strada percorribile è quella diplomatica. Ma per far sì che ciò avvenga, occorre un sussulto da parte dei popoli europei, che finalmente trovino il coraggio di protestare massicciamente contro le politiche scellerate dei loro governi. L’ago della bilancia è l’Europa. Se i cittadini europei riusciranno ad affrancarsi dalle attuali leader e finalmente ad esprimere una classe dirigente responsabile, che sappia mettere da parte gli isterismi e i fanatismi degli ultimi tempi, allora, forse, si potrà addivenire a colloqui di pace seri.
Ma anche se questo alla fine dovesse avvenire, non credo che torneremo a vedere l’Ucraina così come la conoscevamo prima del 2014. L’unico scenario plausibile a mio modo di vedere è una soluzione “alla coreana”, ovvero un’Ucraina occidentale in seno all’Unione Europea e forse nella Nato, un territorio cuscinetto al centro e infine un’Ucraina orientale in seno alla Federazione russa.
– During all the military conflicts in the history, there always was a strong growth of art, including visual art. Can you say it about the war in Ukraine? Have you seen any impressive works of some other artists?
– A dir la verità non ho avuto modo lavori in tal senso.
Interessante e coraggiosa è l’opera di Jorit, lo street artist napoletano, a Mariupol.
In Italia ha destato un vespaio di polemiche accompagnate dalle solite ridicole accuse di filo-putinismo.
Gli ucraini lo hanno addirittura iscritto nella famigerata lista di proscrizione myrotvorets.
Tutto ciò sta a significare che Jorit ha colpito nel segno e che ha onorato il suo ruolo di artista.
Come dice lui stesso “non è l’opera di per se ma quello che vuole comunicare che è importante e quello che comunica il volto di Nastya è la sofferenza dei bambini del Donbass che sono cresciuti per 8 anni sotto le bombe di Kiev e con la paura dei battaglioni Nazisti.”
– How do you think, in what way this conflict could be rethought and embodied in art after it`s finish? Can you imagine now this future music pieces, documentary or fiction movies?
– In parte il mio contributo già l’ho dato con il documentario Divided. L’opera finale è un po’ diversa da come l’avevo concepita. Nei miei sogni si sarebbe dovuto trattare di un lavoro interamente incentrato sul Teatro dell’opera di Donetsk e sul modo tutto particolare degli artisti e degli spettatori di resistere alla guerra concentrandosi sull’arte.
Nel prodotto finale c’è anche la parte ucraina, voluta dalla produzione per rispettare una sorta di par condicio. Ne è venuto fuori un documentario politico, che non è assolutamente ciò che avevo pensato fin dall’inizio. Nella mia idea c’era l’arte al centro, c’era la vita dei civili. La guerra doveva rimanere sullo sfondo, perché i veri protagonisti sono le persone comuni con le loro storie.
– Could I ask about your nearest creative plans?
Sto progettando di fare un fumetto che racconti come in questi ultimi anni i mezzi di informazione mainstream si siano trasformati in un impressionante macchina propagandistica in grado di manipolare e indirizzare le coscienze dell’opinione pubblica.
Attraverso il linguaggio del fumetto spero di riuscire ad intercettare i più giovani, che al momento mi sembrano i più esposti alla propaganda e i meno attrezzati per riuscire ad individuarla.
 
 
Лента новостей
0
Сначала новыеСначала старые
loader
Онлайн
Заголовок открываемого материала